Il cancro corticale del castagno
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IL CASTAGNO

                                                

          Il castagno presente sull’etna, appartenente alla famiglia delle Fagaceae, ha un portamento maestoso, albero di grandi dimensioni, presenta una chioma ampia, più o meno rotondeggiante con un fusto tozzo ed eretto. Le foglie oblungo-lanceolate e seghettate di consistenza coriacea, dalla parte superiore hanno colore verde scuro lucido, dalla parte inferiore si distinguono per il loro colore verde pallido opaco. Di temperamento mesofilo, il castagno è una specie a rapido accrescimento che fruttifica precocemente a circa 10 anni, raggiungendo la maturità a circa 80 anni per le fustaie e 12 anni per i cedui. Si propaga per seme e per talea, ed è presente  nella zona fitoclimatica del castanetum praticamente su quasi tutto il territorio nazionale, Europa meridionale e Asia Minore. 

 

          La coltivazione del castagno attraverso i secoli ha rappresentato in particolare per le popolazioni montane meridionali, sicuro motivo di interesse, di grande importanza economica ma anche di elevato pregio ambientale e cultura sociale che a volte si è fusa con le abitudini di vita quotidiana che ha accompagnato i vari momenti storici del cammino dell’uomo.

 

          Per tradizioni antichissime, il castagno presente sull’isola, presumibilmente da circa 18.000 anni, è stato oggetto di attività colturale da legno e da frutta. La castagna ha infatti rappresentato in passato, una delle principali risorse alimentari che contribuivano al fabbisogno delle popolazioni rurali. Svariati erano i modi di consumo della castagna nella dieta giornaliera; arrosto, lesse, secche, a forno, ma in particolare, dopo averla macinata, la castagna diventava farina da utilizzare per ricavarne pasta, pane, dolciumi e quanto altro servisse all’occasione per le esigenze domestiche. Non solo, in parte essa veniva usata in zootecnia, come mancime per gli animali domestici. Ecco, tutto questo per le popolazioni rurali, poteva considerarsi in senso ampio, una forma di reddito agrario che andava ad integrare gli altri introiti derivanti dalla vendita del frutto e del legname che veniva suddiviso nei vari assortimenti mercantili. La trasformazione del legname grezzo in materiale da opera, era considerata un’arte artigiana che gelosamente si custodiva e tramandava da padre in figlio che ne faceva fiorente commercio. I tronchetti da opera, ovvero le pezzature più grandi, venivano e tuttora vengono usate per la fabbricazione di  infissi, armadi, tavoli, mobilio per cucina e mobili da arredamento identificati anticamente come “arte povera” ed oggi come mobili di valore e non a portata di tutti. Grande utilizzo se ne faceva nella realizzazione di tetti e attrezzi per usi agricoli e artigianali.  L’uso del legname da castagno era totale, pertanto veniva adoperato anche il fasciname per ricavarne brace, graticciate e riscaldamento domestico.  Inoltre, nell’antica tradizione rurale, il frutto rappresentava per un certo verso, certamente un momento significativo di aggregazione e svolgimento della vita sociale per tutta la famiglia che essendo, durante la giornata sempre impegnata nei più svariati lavori, la sera si riuniva davanti al fuoco e nel mentre si consumavano appunto le castagne arrostite, si aveva motivo di dialogare e raccontare, ognuno le proprie storie di vita giornaliera e più remota, narrata dai più anziani, che in quei tempi erano parte attiva ed integrante della famiglia, definita non a caso “patriarcale”. Non solo, la raccolta delle castagne fino agli anni 60, era strettamente connessa alla attività di gruppo del mondo operaio, che si impegnava nell’espletamento di tale pratica, anche attraverso l’organizzazione specifica, finalizzando i risultati di tale consociazione, ad un maggiore reddito da lavoro dipendente. Infine, il castagno veniva utilizzato per la produzione del tannino che veniva usato per la concia delle pelli e nella praparazione di inchiostri e prodotti medicinali.

 

          Oltre al “Fattore economico” che il castagno ha rappresentato e tuttora rappresenta, anche se in modo discontinuo, a causa della dispendiosa coltivazione, legata a pratiche tradizionali, oramai abbastanza datate e non a passo coi tempi, degni di menzione per il loro interesse ambientale-paesaggistico di straordinaria importanza, sono alcuni esemplari  che per la loro longevità e dimensione, possono essere considerati alberi monumentali. E’ il caso del castagno dei 100 cavalli che si trova sulle pendici dell’Etna, in agro del comune di Sant’Alfio. Come tutte le cose la cui storia si perde nella notte dei tempi, non si hanno notizie certe sulla sua origine. Tuttavia, gli studiosi sono concordi nel riconoscere ad esso, verosimilmente un’età di circa 3000 anni.          Storicamente si racconta che sotto la sua grande chioma, vi avrebbe trovato riparo dalle avversità atmosferiche, Giovanna D’Aragona e i 100 cavalieri del suo seguito, che nell’occasione si trovavano sull’Etna. A pochi passi dal castagno dei 100 cavalli, vegeta ancora un altro grande “relitto” monumentale; il castagno di Sant’Agata, che quanto ad altezza raggiunge circa 20 metri, mentre per diametro ed età è certamente più piccolo del castagno dei 100 cavalli.

 

          Oggi le mutate condizioni di vita e le diverse abitudini alimentari delle popolazioni montane, fanno venir meno il reddito prodotto dal castagno. La gente abbandona i boschi e le campagne e questo esodo fa perdere il contatto anche con i prodotti del bosco, aggravandone la crisi che già è in atto. Tale fenomeno, si aggrava quanto il prelievo di materiale legnoso riguarda le formazioni boschive che in massima parte ricadono all’interno di aree protette, dove la severità dei regolamenti, limita la silvicoltura tradizionale a vantaggio della oramai consolidata pratica ambientale, più propriamente estetica, che non prevede vere e proprie utilizzazioni dei boschi, così come  in passato. Tuttavia, oggi, con il tramonto dell’economia di sussistenza, cioè di una economia che destinava la maggior parte della produzione legnosa e da frutta all’autoconsumo, i prodotti del castagno, dell’Etna in particolare, vengono richiesti ed assorbiti in misura crescente dal mercato, da ciò prende spunto una inopinabile certezza che : “non bisogna produrre per produrre ma produrre per vendere”.

 

          Il mercato assume quindi una importanza fondamentale nei riguardi dell’attività di gestione del castagno, poichè è proprio dal mercato, ed in particolare dai prezzi che in esso si formano, che l’imprenditore deve saper  trarre le indicazioni utili ad accrescere ed a perfezionare con il graduale rinnovamento delle strutture e l’intervento sul territorio, l’efficienza economica e gestionale dell’impianto. Per questo, la gestione di un castagneto, come di un qualsiasi arboreto, per ritenersi economicamente valida, deve permettere quanto meno, di ammortizzare in breve tempo le  spese sostenute per l’impianto e per  la sua conduzione. Questo si realizza attraverso lo studio dei vari elementi economici e tecnici, prendendo in considerazione appunto, fattori di mercato e territoriali che possano altremodo favorire la meccanizzazione  delle operazioni di coltura e raccolta, così da abbassare notevolmente i costi di produzione ed a concorrere notevolmente ad aumentare i redditi netti dell’operatore che viene così spronato ad arrestare l’esodo rurale.    Ad ogni modo, le caratteristiche ambientali e orografiche dei nostri territori, sommate al  perdurare della mentalità operativa e gestionale degli imprenditori meridionali, rende naturalmente vano e sconsigliabile sotto l’aspetto economico, qualsiasi impegno di recupero che non sia finalizzato ad una coltura indirizzata specificamente a recuperare e rafforzare le capacità produttive di impianti da frutto o da legna, tenendo presente le richieste di mercato che come dicevamo, influenzano sempre  le scelte di produzione.

 

          Se  alle suddette difficoltà, vogliamo aggiungere le due gravi fitopatie di cui il castagno soffre, e cioè il cancro corticale e il mal dell’inchiostro, ne esce fuori un quadro estremamente allarmante che appunto, fa ulteriormente abbassare  il reddito delle popolazioni montane, che anche per questo sono costrette ad abbandonare tali pratiche che comunque come dicevamo, se ben organizzate, sono tuttora abbastanza remunerative. 

 

          Volendo focalizzare geograficamente il castagno dell’Etna, possiamo affermare che esso si pone nella zona fitoclimatica del Castanetum, che secondo il PAVARI, in Sicilia varia dai 700 ai 1400 metri di altezza sul livello del mare.

 

          La vegetazione castanile nel proprio ambiente e i terreni silici-vulcanici, generalmente molto freschi e profondi, fanno sì che il castagno dell’Etna, che rappresenta una bella porzione dei circa 8000 Ha. complessivi di tutta la Sicilia, cresca abbastanza rigoglioso malgrado esso sia oggetto delle due gravi malattie sopra accennate, che minacciano la stessa sopravvivenza della specie. Stiamo parlando del Cancro corticale (Endothia Parasitica--Murr:And) e Mal dell’inchiostro (Phitophthora Cambivora--Petri.Buis.) Il Cancro corticale è causato da un fungo ascomicete (Criphonectria parasitica--Murr..Barr), isolato in Italia meridionale verso i primi anni quaranta, di origine asiatica, presumibilmente pervenutoci  attraverso gli Stati Uniti, sin dagli inni del secolo. La malattia, a volte irreversibile per le pianta, si presenta in diverse manifestazioni, caratterizzando la più grave, denominata ipervirulenta, sottoforma di una grossa squamazione e screpolatura della corteccia, che all’inizio interessa soltanto una piccola parte di essa, per poi, in certi casi, ramificarsi su tutta la pianta. Sulla parte colpita, si nota facilmente il micelio, che  presenta  il tipico aspetto felciforme feltroso, di colore crema che nella sua evoluzione e a secondo del periodo, tende a fare seccare sia le foglie che le infioriscenze, creando a volte a secondo della virulenza, un vero e proprio distacco tra la corteccia e la parte legnosa del tronco, il quale nei casi più gravi, tende ad infeltrirsi e morire. Un’altra caratteristica di riconoscimento del Cancro corticale, è l’emissione da parte della pianta, di nuovi polloni nella parte immediatamente sottostante alla sezione colpita, come a volere manifestare una forma di difesa e voglia di vita.

 

          Il Cancro corticale è presente su una superficie territoriale molto vasta: la sua diffusione si può considerare quasi uniforme su tutto l’areale di vegetazione, pur se da una recente indagine, è emerso che la popolazione arborea colpita, rappresenta il 50--60% del totale presente in Sicilia, percentuale che statisticamente, sembra in fase regressiva. Queste informazioni ci fanno ben sperare, e se è vero che la malattia in qualche modo è in diminuzione, aumentano le speranze di potere finalmente debellare e sconfiggere questo male che crea così grave devastazione, in particolare nel comprensorio etneo, che certamente è il più provato da tale calamità. Peraltro, l’ampiezza del territorio interessato al problema, crea obbiettive difficoltà nell’intervento repressivo su vasta scala, mirato contro il Cancro corticale, sia con la lotta di risanamento biologico che con interventi tecnici sostitutivi. Non secondariamente, vi è anche un altro problema di  “frammentazione”, nel senso che la maggior parte di impianti sull’Etna, sono in possesso di privati che sembrano oramai rassegnati a convivere con tale fenomeno e ovviamente all’atto dell’intervento appropriato di prevenzione e repressione della malattia, per svariati motivi e in particolare per cause economiche, applicano la vecchia pratica, tramandata dai padri, del taglio raso, che nell’immediato sembra risolvere il problema ma subito dopo qualche anno, si rimanifesta più grave che mai, non lasciando prospettive incoraggianti per il futuro.      Finalità di questa pratica colturale, è la riduzione dei turni, così da cercare di rinforzare i giovani polloni. Incoraggianti e degni di menzione, sono alcuni studi ed interventi, in avanzata fase sperimentale, che consistono nella inoculazione, previo accertamento di compatibilità genetica, di un ceppo ipovirulento sulle piante infette da patologia ipervirulenta. Tale tecnica, a secondo delle condizioni, sembra che riesca ad influire positivamente nell’assicurare un decorso benigno alla pianta, riuscendo a volte a creare potenzialità di cicatrizzazione per la stessa. Questo metodo, applicato su vasta scala, evidentemente comporta considerevoli problemi di natura tecnico-economica che su vaste superfici ne sconsigliano l’impiego. Tuttavia, ai fini scientifici e di studio, potrebbe essere una ipotesi degna di approfondimento e sperimentazione. Ovviamente quest’ultima pratica, si pone nettamente in contrasto con i sopraccitati  interventi di taglio raso e riduzione dei tagli, dato che l’eventuale eliminazione  indiscriminata di tutte le piante, comporterebbe tra l’altro, anche la soppressione delle piante portatrici di ceppi ipovirulenti che dovrebbero assicurare la trasmissibilità  e quindi il controllo biologico della malattia. 

 

          L’altra grave fitopatia che unitamente al cancro corticale concorre al danneggiamento, a volte irreversibile dei  boschi di castagno, è il Mal dell’Inchiostro (Pytophtora Cambivora) che fortunatamente, per quanto interessa il territorio etneo, è presente in forma lieve. La malattia nella sua drammatica manifestazione, riesce a creare danni alla pianta veramente eccezionali, in particolare quando l’impianto è esposto a forte umidità le caratteristiche pedologiche del terreno, non dimostrano buona permeabilità e capacità di scambio degli elementi nutritivi. I tessuti cambiali vengono attaccati dal fungo, che non lascia loro scampo, si stabilizza sulle radici della pianta e di seguito tende ad infestare anche le parti inferiori del tronco, che conseguentemente presenta una modificazione cromatica, rappresentata da macchie nerastre ben definibili a causa del distacco della corteccia. Tale fenomeno porta al precoce deperimento della pianta, attraverso un complesso processo biologico che può avere un decorso lento o rapido, così da causare la morte della pianta nel giro di pochi anni, a secondo della gravità.

La presenza del Mal dell’Inchiostro, si manifesta con vari sintomi; ingiallimento delle foglie, dissecamento dei rami principali ed interruzione del processo di fruttificazione, in quanto i ricci non sviluppati restano attaccati alla pianta.

 

          Come per il cancro corticale, la lotta al Mal dell’Inchiostro, rappresenta delle serie difficoltà di attacco, in particolare negli interventi su vasta scala. Tuttavia, buoni risultati si sono ottenuti con progetti di impianto di castagno giapponese e conseguente innesto con cultivar comuni. Questo metodo, certamente molto complesso nella pratica, normalmente viene sostituito con l’applicazione di una mirata cura colturale che alla fine, porta al taglio raso e conseguente reimpianto.

 

          Come abbiamo visto le due principali patologie che colpiscono il castagno, pur se presenti in Italia da molto tempo, rappresentano in effetti un problema che ovviamente dovrà essere ancora materia di studio nel campo della difesa forestale, e seppur negli ultimi anni ha acquisito interessanti risultati nella pratica di studio delle alterazioni vegetali causate da tali fitopatie, in concreto non ha sortito alcuna attuazione terapeutica che possa considerarsi soddisfacente, sia per il costo che per i risultati.    Ad ogni modo, la conoscenza delle sintomatologie, che nella fattispecie, oltre a quelle menzionate, sono abbastanza varie, può facilitare le diagnosi indicative della malattia e quindi l’intervento più appropriato.

 

 

                                                                                                       Vincenzo CRIMI

                                                                                   Commissario Superiore del Corpo Forestale

        

      IL CANCRO CORTICALE DEL CASTAGNO

 

           Il castagno soffre di due gravi malattie che minacciano la stessa sopravvivenza della specie: il Cancro corticale (Endothia Parasitica--Murr:And) e Mal dell’inchiostro (Phitophthora Cambivora--Petri.Buis.) Il Cancro corticale è causato da un fungo ascomicete (Criphonectria parasitica--Murr..Barr), isolato in Italia meridionale verso i primi anni quaranta, di origine asiatica, presumibilmente pervenutoci  attraverso gli Stati Uniti, sin dagli inni del secolo. La malattia, a volte irreversibile per le pianta, si presenta in diverse manifestazioni, caratterizzando la più grave, denominata ipervirulenta, sottoforma di una grossa squamazione e screpolatura della corteccia, che all’inizio interessa soltanto una piccola parte di essa, per poi, in certi casi, ramificarsi su tutta la pianta. Sulla parte colpita, si nota facilmente il micelio, che  presenta  il tipico aspetto felciforme feltroso, di colore crema che nella sua evoluzione e a secondo del periodo, tende a fare seccare sia le foglie che le infioriscenze, creando a volte a secondo della virulenza, un vero e proprio distacco tra la corteccia e la parte legnosa del tronco, il quale nei casi più gravi, tende ad infeltrirsi e morire. Un’altra caratteristica di riconoscimento del Cancro corticale, è l’emissione da parte della pianta, di nuovi polloni nella parte immediatamente sottostante alla sezione colpita, come a volere manifestare una forma di difesa e voglia di vita.

     Il Cancro corticale è presente su una superficie territoriale molto vasta: la sua diffusione si può considerare quasi uniforme su tutto l’areale di vegetazione, pur se da una recente indagine, è emerso che la popolazione arborea colpita, rappresenta il 50--60% del totale presente in Sicilia, percentuale che statisticamente, sembra in fase regressiva. Queste informazioni ci fanno ben sperare, e se è vero che la malattia in qualche modo è in diminuzione, aumentano le speranze di potere finalmente debellare e sconfiggere questo male che crea così grave devastazione, in particolare nel comprensorio etneo, che certamente è il più provato da tale calamità. Peraltro, l’ampiezza del territorio interessato al problema, crea obbiettive difficoltà nell’intervento repressivo su vasta scala, mirato contro il Cancro corticale, sia con la lotta di risanamento biologico che con interventi tecnici sostitutivi. Non secondariamente, vi è anche un altro problema di  “frammentazione”, nel senso che la maggior parte di impianti sull’Etna, sono in possesso di privati che sembrano oramai rassegnati a convivere con tale fenomeno e ovviamente all’atto dell’intervento appropriato di prevenzione e repressione della malattia, per svariati motivi e in particolare per cause economiche, applicano la vecchia pratica, tramandata dai padri, del taglio raso, che nell’immediato sembra risolvere il problema ma subito dopo qualche anno, si rimanifesta più grave che mai, non lasciando prospettive incoraggianti per il futuro. Finalità di questa pratica colturale, è la riduzione dei turni, così da cercare di rinforzare i giovani polloni. Incoraggianti e degni di menzione, sono alcuni studi ed interventi, in avanzata fase sperimentale, che consistono nella inoculazione, previo accertamento di compatibilità genetica, di un ceppo ipovirulento sulle piante infette da patologia ipervirulenta. Tale tecnica, a seconda delle condizioni, sembra che riesca ad influire positivamente nell’assicurare un decorso benigno alla pianta, riuscendo a volte a creare potenzialità di cicatrizzazione per la stessa. Questo metodo, applicato su vasta scala, evidentemente comporta considerevoli problemi di natura tecnico-economica che su vaste superfici ne sconsigliano l’impiego. Tuttavia, ai fini scientifici e di studio, potrebbe essere una ipotesi degna di approfondimento e sperimentazione. Ovviamente quest’ultima pratica, si pone nettamente in contrasto con i sopraccitati  interventi di taglio raso e riduzione dei tagli, dato che l’eventuale eliminazione  indiscriminata di tutte le piante, comporterebbe tra l’altro, anche la soppressione delle piante portatrici di ceppi ipovirulenti che dovrebbero assicurare la trasmissibilità  e quindi il controllo biologico della malattia. 

          L’altra seria fitopatia che unitamente al cancro corticale concorre al danneggiamento, a volte irreversibile dei  boschi di castagno, è il Mal dell’Inchiostro (Pytophtora Cambivora) che fortunatamente, per quanto interessa il territorio siciliano, è presente in forma lieve. La malattia nella sua drammatica manifestazione, riesce a creare danni alla pianta veramente eccezionali, in particolare quando l’impianto è esposto a forte umidità le caratteristiche pedologiche del terreno, non dimostrano buona permeabilità e capacità di scambio degli elementi nutritivi. I tessuti cambiali vengono attaccati dal fungo, che non lascia loro scampo, si stabilizza sulle radici della pianta e di seguito tende ad infestare anche le parti inferiori del tronco, che conseguentemente presenta una modificazione cromatica, rappresentata da macchie nerastre ben definibili a causa del distacco della corteccia. Tale fenomeno porta al precoce deperimento della pianta, attraverso un complesso processo biologico che può avere un decorso lento o rapido, così da causare la morte della pianta nel giro di pochi anni, a secondo della gravità.

          La presenza del Mal dell’Inchiostro, si manifesta con vari sintomi; ingiallimento delle foglie, dissecamento dei rami principali ed interruzione del processo di fruttificazione, in quanto i ricci non sviluppati restano attaccati alla pianta.

          Come per il cancro corticale, la lotta al Mal dell’Inchiostro, rappresenta delle serie difficoltà di attacco, in particolare negli interventi su vasta scala. Tuttavia, buoni risultati si sono ottenuti con progetti di impianto di castagno giapponese e conseguente innesto con cultivar comuni. Questo metodo, certamente molto complesso nella pratica, normalmente viene sostituito con l’applicazione di una mirata cura colturale che alla fine, porta al taglio raso e conseguente reimpianto.

          Come abbiamo visto le due principali patologie che colpiscono il castagno, pur se presenti in Italia da molto tempo, rappresentano in effetti un problema che ovviamente dovrà essere ancora materia di studio nel campo della difesa forestale, e seppur negli ultimi anni ha acquisito interessanti risultati nella pratica di studio delle alterazioni vegetali causate da tali fitopatie, in concreto non ha sortito alcuna attuazione terapeutica che possa considerarsi soddisfacente, sia per il costo che per i risultati. Ad ogni modo, la conoscenza delle sintomatologie, che nella fattispecie, oltre a quelle menzionate, sono abbastanza varie, può facilitare le diagnosi indicative della malattia e quindi l’intervento più appropriato.

 

                                                                             Vincenzo CRIMI

                                                                                   Commissario Superiore del Corpo Forestale