La resinazione del pino
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LA RESINAZIONE

          Oltre agli Arabi, particolare interesse sembra abbiano avuto nei riguardi dei boschi di conifere della nostra isola, gli antichi romani e, prima di loro, anche le città greche di Sicilia, a cominciare da Siracusa: per la costruzione delle loro navi utilizzavano tanto il legname quanto la pece ricavata dalla resina estratta dai tronchi maturi dei pini. Sembra verosimile che gli antichi romani già nel 270 a.C. , prima ancora di disboscare gran parte del territorio siciliano per destinarlo alla massiccia coltivazione cereagricola, così da definire l’isola il granaio di Roma, praticarono un vero e proprio disboscamento nel bosco Ragabo di Linguaglossa, come quello che compirono i Fenici ai danni del complesso boscato dei Pirenei nel quinto millennio avanti Cristo. Infatti, i grandi strateghi romani capirono che per conquistare le città fortezze sul mare, Lilibeo (Marsala), Drepanum (Trapani), Panormus (Palermo) e tutte le altre città della costa Siciliana, avevano necessità di varare una formidabile flotta capace di confrontarsi con quelle nemiche. Così fù, le nostre coste diventarono enormi cantieri navali e per questo il materiale legnoso unitamente alla resina occorrente per la impermeabilizzazione delle trireme, venne procurato appunto, ai danni dei grandi boschi di Sicilia, ed in particolare dell’Etna dove notoriamente vegeta il Pino Laricio. 

          Questo albero appartenente alla famiglia delle pinaceae, oltre ad essere una delle piante più resistenti e diffuse del panorama vegetazionale etneo, è considerato come una pianta di particolare interesse naturalistico, scientifico e,  in passato, anche economico. 

          Gli aghi del pino laricio sono molto abbondanti, accuminati, leggermente ricurvi e di colore verde scuro. I coni sono di color giallo dorato e di forma ovoidale terminanti a punta e misurano circa 8 cm. Il portamento eretto, può essere considerato  mutabile, in quanto la sua chioma può essere piramidale o ad ombrello quando la pianta è più matura ed è vegetante in zone battute dal vento. Il tronco mette in evidenza una corteccia  grigio-scura, a seconda delle condizioni ambientali, e si fessura profondamente con l’età, creando delle grosse “squame”. La chioma è stretta in rapporto al tronco a causa dei suoi rami arcuati verso l’alto e del fogliame abbastanza lungo. In particolari condizioni geopedologiche, il pino laricio raggiunge anche i 40 metri di altezza e riesce a vegetare anche per alcuni secoli. Verosimilmente l’esistenza del pino laricio presente sull’Etna, risale a circa 350.000 anni fà. Secondo quanto scrive A. Giacobbe sul suo “ Ricerche ecologiche e tecniche sul Pino Laricio Pois e sul Pinus Austriaca Hoess “ del 1937, si presume che il pino laricio, condividendo il territorio, appunto  con le specie quercine, arrivò  sull’Etna alla fine del quaternario, quando dopo avere superato il mare, in quanto già allora la Sicilia era separata dalla Calabria dallo stretto di Messina, trasmigrò dall’Aspromonte, che era l’areale di questa specie vegetale più a sud presente in Italia, ed approdò sull’Etna.

          Anticamente il suo legno veniva utilizzato per la costruzione di navi e attrezzi da lavoro. Il legname era utilizzato altresì per la realizzazione di tetti e travi portanti. 

          L’apparato radicale del pino laricio è molto sviluppato ed esteso, sempre alla ricerca di elementi nutritivi utili alla sua vita. Per questo, riesce a rompere e spaccare anche le rocce che si pongono sul suo cammino come ostacolo alla sua crescita, riuscendo nel difficile compito di colonizzare anche le lave affioranti e pertanto svolgere un compito utilissimo ai fini dell’equilibrio biologico del territorio interessato.  

          Le sue radici (Deda)_ ricche di resina, vengono altresì utilizzate come combustibile per la loro alta e rapida infiammabilità.

          La pratica della resinazione è stata operata nella pineta di Linguaglossa, sin quasi negli anni  sessanta. Pratica ultimamente accantonata solo ed unicamente per motivi di scarsa economicità. A testimonianza di questa usanza, restano ancora ben visibili, sui tronchi dei pini adulti, le caratteristiche incisioni a “lisca di pesce” praticate sulla pianta per l’estrazione della resina che, subito dopo, veniva trasformata in pece, diluente, vernice ed altro.  La pratica di resinazione in  fase preliminare, consisteva nel predisporre un’area dove vegetavano le piante adulte da resinare, ( campo base). Su tali piante veniva effettuata la scorzatura, l’affissione delle tabelle indicatrici e l’applicazione dei vasetti che dovevano contenere la resina. Di seguito, finiti gli adempimenti preliminari, venivano effettuate le incisioni con criteri che potevano variare a secondo degli anni. Mediamente, attraverso l’utilizzo di attrezzi specifici (raschietti e asciotti), venivano praticate n° 2 incisioni alla settimana. Considerato che il periodo di resinazione interessava mediamente il periodo di Giugno-Ottobre, appare evidente che su ogni pianta a fine trattamento, si potevano contare circa 40 incisioni  che sortivano una quantità media (a secondo delle dimensioni della pianta) di Kg.2.500. Anche il prezzo della resina variava, a secondo della qualità e richiesta di mercato, tra le £.65 e £. 75 al chilogrammo. La raccolta e la pesatura per ogni pianta, avveniva con cadenza mensile e addirittura in alcuni anni, ogni 15 giorni. 

          L’arte della resinazione si è sempre intrecciata con  la storia del bosco Ragabo e in particolare attraverso i secoli si è sempre allacciata con le vicissitudini del popolo linguaglossese, tanto da influire in modo determinante proprio alla nascita e sviluppo del paese stesso. Infatti, la resinazione, secondo lo  studioso Antonio Filoteo degli Omodei, fù introdotta nel bosco Ragabo, da alcuni nuclei familiari liguri e lombardi, arrivati originariamente sul territorio di Castiglione, i quali verso il 1000-1100, prima dell’arrivo a Linguaglossa di re Ruggero II° (1145), lasciarono il loro feudo di appartenenza  e  si stabilirono all’interno di questa grande selva,  dove forti delle loro originarie tradizioni, incominciarono ad estrarre e lavorare la resina, nonchè presumibilmente, unitamente alle popolazioni locali, contribuirono appunto, alla formazione della piccola comunità operosa di Linguagrossa, così chiamata a causa del parlare rozzo dei liguri, origine questa non condivisa da alcuni studiosi, che traeva il proprio sostentamento dal bosco e sin da allora sempre identificata con esso.

          Nel suo “ AETNAE TOPOGRAPHIA “ del 1591, l’Omodei così riportava : “...sono nei boschi di questa regione alti  & larghi faggi, &  più lunghi & grossi pini, onde  gli artefici lavorano la ragia, la pece & la trementina, & altri medicinali licori...e ancora...furono quelli lombardi in mongibello i primi, i quali scopersero che vi si poteva a bell’agio lavorar la pece, & i linguagrossesi in fin hoggi attendon a costal mestiere... “

          Tommaso Fazello nel 1749, rimarcava  l’intreccio la resinazione e il bosco Ragabo di Linguagrossa che  “...è famosa per cagion di quel bosco, ove sono gli alberi che fanno la pece...” ( dal  manoscritto consuetudini di Linguaglossa - Archivio di Stato di Catania ).

          Qualche decennio più tardi e precisamente nel 1793, riferitosi alla pineta e alla resinazione, lo studioso Ferrara, in    “Storia generale dell’Etna “,   riportava (... una foresta immensa, copre all’intorno la seconda regione o i fianchi dell’Etna, sino a poco dopo la metà della sua altezza e che chiamasi anche regione selvosa ; presenta tale estensione la più vigorosa e la più annosa vegetazione “.

                                                   

                                                                                  Vincenzo CRIMI

                                                                                   Commissario Superiore del Corpo Forestale