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Il grande olivo di GEBBIA

I GRANDI PATRIARCHI NATURALI DI SICILIA:IL GRANDE OLIVO DI GEBBIA

(Età stimata 1300 – 1500 anni – R. Schicchi e F.M Raimondo)

Testo a cura di Enzo Crimi – già Commissario Superiore del Corpo Forestale della Regione Siciliana, saggista, divulgatore ambientale e naturalista, esperto di problemi del territorio.

Secondo alcuni studiosi, migliaia di anni fa, la nostra isola era coperta dal 90% di boschi e gli alberi di grandi dimensioni dovevano essere certamente numerosi, vivendo all’interno di ecosistemi ancora integri, dove il ricambio generazionale avveniva in modo naturale. Ancora oggi a distanza di secoli ed in alcuni casi millenni, incontriamo questi grandi patriarchi vegetali spesso isolati, che resistono tenacemente agli attacchi dell’uomo, del tempo e degli eventi naturali, magari in quei contesti territoriali difficilmente raggiungibili dai mezzi meccanici, o in virtù della sacralità attribuita loro da credenze e leggende locali. Gli alberi secolari sono autentici relitti sopravvissuti alle avversità e non necessariamente devono essere piante forestali, infatti, tra i grandi tesori botanici hanno il giusto risalto centenarie piante di olivo, veri e propri “primi padri” e piante di grande fascino ed attrattiva. Olivi che hanno avuto una diffusione ed importanza in un lontano passato e che oggi rivestono il ruolo di testimoni di un tempo proiettato in un futuro che ha radici antiche.

Uno tra gli olivi secolari più conosciuti è il grande “Olivo di Gebbia” (Olea Europaea L.), si trova nelle campagne di “La Gebbia”, località con segni di forte antropizzazione, in comune di Avola (SR) a poche decine di metri dal livello del mare su terreno pianeggiante sabbioso calcarenitico. Il grande “Olivo di Gebbia”, per come riportato nella pubblicazione “I grandi alberi di Sicilia” edita da Azienda Foreste Demaniali R.S., é uno splendido plurisecolare esemplare monumentale di olivo, insomma, un vero e proprio capostipite della flora arborea presente nell’area, considerato il più grande della provincia di Siracusa e della Sicilia, ha un’età stimata di 1300 – 1500 anni, é alto oltre 10 metri, ha una circonferenza massima al colletto di circa 16 metri e una circonferenza del tronco a mt 1,30 dal suolo di circa mt. 10,50 con una proiezione di chioma naturale fitta e tondeggiante al suolo di circa 90 mq².. Si tratta di un enorme esemplare costituito da due fusti accostati, il più grande dei quali, di forma tronco-conica con tre grossi e contorti rami a circa 2,5 mt. dal suolo e presenta un’ampia cavità centrale. Il secondo fusto presenta un’inclinazione rivolta ad est, ha una circonferenza di circa 2,5 mt a petto d’uomo e una grande cavità nella parte basale. L’olivo, che soffre della’antropizzazione del sito di vegetazione, detiene complessivamente uno stato vegetativo mediocre in quanto è anche affetto da seccume e carie che andrebbero rimosse.

Certamente a causa dell’età secolare, ma anche di fattori biotici e abiotici, questo “gigante del tempo” via via sarà sempre più vulnerabile ad alcune fitopatìe, al lento e incessante scorrere del tempo e al normale e inesorabile dissolvimento. Inoltre, é doveroso ricordare che anche le “piante monumentali” non vivono in eterno, la mortalità naturale fra le piante in bosco è elevatissima e questa straordinaria pianta, che resiste da diversi secoli all’uomo e al tempo, non potrebbe essere un’eccezione. Tuttavia, perderlo sarebbe senza dubbio per l’uomo una grave privazione perché esso rappresenta una grande Enciclopedia di vita in questi luoghi. La presenza di piante così vetuste, sono importanti indicatori per la ricostruzione del paesaggio agro-forestale autoctono della Sicilia e del suo clima, nonché delle attività antropiche e colturali che nei secoli hanno interessato la regione.

Il territorio naturale di RANDAZZO

NOTIZIE DALLA PREISTORIA:

IL TERRITORIO NATURALE DI RANDAZZO E DELLE VALLI DELL’ETNA

Testo e ricerche bibliografiche a cura di Enzo Crimi – già Commissario Superiore del Corpo Forestale della Regione Siciliana, saggista, divulgatore ambientale e naturalista, esperto di problemi del territorio.

Se non avete avuto modo di assistere al “1° CONVEGNO DI STUDI CITTÀ DI RANDAZZO” e alla prima conferenza sulla preistoria, dal titolo “I più antichi abitatori del territorio di Randazzo”, che si é svolta Sabato 18 Marzo 2023 alle ore 17,30, presso il Centro Polifunzionale (ex Cinema Moderno) di Randazzo e se avete il desiderio di leggere per conoscere sin dagli albori la lunga storia naturalistica del territorio di Randazzo e delle Valli dell’Etna, vi propongo la lettura della mia relazione curata per quell’occasione. Aiutandomi con la letteratura di settore, non sempre univoca, ho tentato di tracciare un’intrigante viaggio esperienziale attraverso l’evoluzione delle prime forme di vita vegetale e animale che sin dalla sua formazione, si sono insediate in questo territorio. Appare utile ricordare che questa relazione è stata stilata con la consapevolezza che il lungo periodo non codificato e privo di riscontri tangibili, spesso non permette di illuminare a fondo la tematica, tanto da poterla considerare completa e affermata.

La storia naturalistica del territorio di Randazzo incomincia con quella dell’Etna e volendone esaminare ipoteticamente l’origine di quella storia si dovrà prima conoscere l’origine di questa. In questo convegno discuteremo dei primi abitatori di questo territorio, ebbene, anche questa mia illustrazione, è la storia delle prime forme di vita vegetale che hanno abitato queste terre. Nel territorio etneo, i beni naturalistici coesistono con il vulcano da oltre 500.000 anni, da quando i primordiali fenomeni naturali effusivi, iniziavano a dare vita a quello che sarebbe diventato l’Etna, il più grande vulcano d’Europa. Il territorio di Randazzo, ad eccezione dei monti Nebrodi che come sappiamo hanno un’altra genesi, è stato in gran parte forgiato dalla potenza dell’Etna che con le sue emissioni laviche, ha creato nei millenni un ambiente ricco di grande suggestione geologica, paesaggistica e nel tempo anche naturalistica. Nel corso di questi lunghissimi millenni di attività eruttiva dell’Etna, tutto il paesaggio di queste terre è stato plasmato dalla lava, dalla cenere e dai gas che inizialmente lo hanno reso desertico, desolato e naturalmente privo di vita. Ciò nonostante, dopo il caos vulcanico primordiale, la natura ha intrapreso lentamente il suo processo di vita e di conquista del territorio ancora oggi in itinere.

Insomma, la natura non si tira mai indietro di fronte ad una sfida, ha imparato ad adattarsi e sfruttare queste condizioni di vita precarie e risorgere sempre dalle sue polveri, questo grazie alla presenza di un prezioso elemento naturale: l’acqua, una sostanza adattabile all’origine di ogni esistenza. Tutta la vita dipende dall’acqua, ed in particolare da quella piovana che per legge di natura, inesorabilmente continua a cadere dal cielo bagnando e introducendosi tra le antiche e millenarie lave superficiali e mutando il loro aspetto da aride lande in bellezze esaltanti. E’ una sorta di continua lotta tra roccia e acqua che filtra attraverso i pori delle pietre laviche e dona vita ai licheni, che vengono trasportati dal vento che li sparge su tutto il territorio e li lascia introdurre in ogni piccola cavità e fessurazione delle lave, così da formare il primo strato del suolo. Organismi molto semplici come muschi, licheni e le felci che trattengono l’acqua un pò più a lungo, lentamente migliorano e risanano il terreno lavico, in modo che possano germinare i primi semi che daranno vita alle prime piante arbustive ed arboree, che formeranno i primi nuclei forestali.

I progressi naturali di nutrimento e riproduzione vegetale e i processi fotosintetici, certo hanno bisogno di secoli o migliaia di anni di lotta contro la dura roccia lavica, ma hanno permesso l’evoluzione vegetale. Come accaduto per l’Homo, l’evoluzione della vita vegetale, è partita da lontano e, tassello dopo tassello, ha portato alla luce le attuali piante, ognuna delle quali, perfettamente adattata a vivere nel proprio ambiente naturale e con le proprie diversità, ha contribuito al cambiamento di interi paesaggi. Le piante in principio sono solitarie, poi con il passare del tempo si evolvono si caratterizzano, una dopo l’altra si uniscono per formare veri e propri boschi, il luogo di nascita di altre forme di vita vegetale e animale. Il loro l’obiettivo è quello di moltiplicarsi, colonizzare e dominare la nera crosta lavica sulla quale esse sono nate, divenendo componenti fondamentali di quasi tutti i suoi ambienti e diminuendo drasticamente la formazione di CO2.

Studi recenti hanno dato una visione d’insieme riguardo l’evoluzione espansiva climatica, vegetazionale e anche faunistica del territorio siciliano e dunque, dell’Etna e dei Nebrodi. Queste ricerche, che certo andrebbero ancora approfondite, ci dicono che la nostra isola raggiunse gradualmente il suo culmine circa 10-15 mila anni fa e forse ancor prima, quando era coperta dal 90% di boschi e vegetazione minore che in seguito nel corso dei secoli, purtroppo si assottigliarono drammaticamente a causa dell’impatto antropico. Ci pervengono notizie storiche che prima ancora delle conosciute civiltà, le condizioni ambientali del nostro pianeta dovevano essere radicalmente diverse rispetto a quelle odierne, il mare era al di sotto della superficie attuale e l’estensione totale doveva essere maggiore. La nostra isola era verosimilmente connessa all’Italia peninsulare da una striscia di terra, insomma, una sorta di ponte continentale o una sella sommersa dello stretto di Messina come chiamato dagli studiosi e attualmente ad una profondità di 81 metri sotto il livello del mare, che emerse nel corso dell’ultima glaciazione e permise la variazioni del livello del mare e dunque, la possibilità del libero transito delle specie vegetali ma anche dell’Homo Sapiens di allora e delle faune continentali, alcune delle quali oggi estinte (ENEA – Incarbona A. et al.).

Come sappiamo, sin dalla Preistoria le piante hanno condizionato lo sviluppo di ogni forma di vita sul nostro pianeta, e anche sul nostro territorio, esercitando nei millenni una grande influenza sul progresso dell’umanità. Come noto, dalle piante si ricavava una parte importante dell’alimentazione, si otteneva il legno per il fuoco, per le abitazioni e gli strumenti, si ottenevano le fibre per corde e vestiti e persino per essenze medicinali. Anche oggi le piante assolvono a questi compiti e nel loro insieme sono essenziali per mitigare i devastanti cambiamenti climatici. In quei tempi il tipo di vegetazione preistorica presente sul nostro territorio, era composto da veri e propri fossili viventi e cambiava ciclicamente a seconda dei fattori locali come per esempio altitudine, precipitazione e presenza di microclimi. Oramai è cosa certa che nelle aree più in quota sopra di 1200 m s.l.m. e precisamente nelle regioni montane dell’Etna e dei Nebrodi, la vegetazione era presumibilmente costituita da foreste di faggio, frammiste al pino, querce e altre caducifoglie intercalati a formazioni arbustive.

Nelle aree più interne e sub-montane la copertura arborea era caratterizzata da una forte prevalenza di querce, mentre nelle zone costiere si sviluppava la macchia mediterranea, per trasformarsi in seguito negli anni (a partire da circa 7.000 anni fa) a vere e proprie foreste di alberi sempreverdi. La macchia mediterranea è una formazione vegetale, rappresentativa del clima termomediterraneo, delineata dal corbezzolo, lentisco, tamarice, ginepro, erica, cisto, ginestra, fillirea, rosmarino, euforbia e altre ancora. In queste aree costiere le piante sempreverdi resistettero fino a circa 2.700 anni fa, quando avvenne la definitiva trasformazione sino ai giorni nostri in macchia mediterranea forse a causa della forte pressione antropica. Voglio aggiungere che nel versante orientale della nostra isola, la macchia mediterranea è alquanto regredita, infatti, ha una limitata distribuzione concentrata su alcuni sottobacini dell’Alcantara e rappresenta appena il 3% della sua consistenza vegetazionale generale di bacino. Nel periodo preistorico i fiumi avevano un corso molto variabile, con piccoli canali intrecciati e alvei pietrosi, simili a quelli di alta montagna. Colonizzando la terraferma, le piante hanno progressivamente stabilizzato i corsi d’acqua fino a conferirgli le forme che sono molto comuni ai giorni nostri. Anche il territorio fluviale dell’Alcantara era ben ricco di rigogliosa vegetazione vascolare quali platani, aceri, pioppi, olivastri e una rigogliosa vegetazione minore arbustiva e acquatica. Questi insediamenti sono oggi di minore consistenza, ciò dovuto in particolare all’ampliamento della superficie agricola che include anche vigneti e pascoli.

Attualmente quel famoso 90% di cui abbiamo accennato prima, pian piano a partire dall’insediamento delle prime conosciute civiltà, si è ridotto drasticamente, in parte per la progressiva riduzione delle precipitazioni e aridificazione dei suoli, ma anche per gli incendi e per le colate laviche che nel territorio etneo sono determinanti. Come dicevamo, a queste carenze influisce il forte impatto antropico dei primi consistenti insediamenti greci e a seguire romani, bizantini e le varie civiltà che nel corso dei secoli si erano installati su queste terre a fini agricoli e di allevamento, ma anche per l’abbondanza di acqua e boschi e dunque legname che utilizzavano per usi civili e bellici. Insomma, la presenza umana sembra essere stato il fattore principale nel modellamento non sempre benefico dell’attuale distribuzione della vegetazione in Sicilia. Dobbiamo dire che queste massicce deforestazioni , sono state e lo sono ancora, una piaga globale e comunque, furono certamente i presupposti principali nel cambiamento del paesaggio e della vegetazione, perchè apportarono robusti mutamenti e deleterie conseguenze agli habitat di tutto il mondo. Mi viene pensare l’Amazzonia, il polmone verde del pianeta, oggi preso d’assalto dalle multinazionali del legno responsabili della scomparsa delle foreste pluviali e della degradazione degli ecosistemi naturali.

Ritornando al nostro territorio, io penso che senza l’intervento dell’uomo nel corso dei secoli , l’aspetto della vegetazione nella nostra isola in generale, forse sarebbe molto diverso ed ancora, in modo sostanziale caratterizzato dalla presenza di boschi e foreste che si estendevano sino al mare. Dopo le gravi perdite di biodiversità del periodo post-industriale, avvenute a causa delle attività umane (cambiamenti climatici, inquinamento, deforestazione, incendi e agricoltura non sostenibile), per come emerge dall’ultimo Inventario Nazionale Forestale, attualmente il patrimonio forestale italiano é in espansione di circa 600.000 ettari . In Italia ci sono in totale circa 13 miliardi di alberi, pari a oltre 1200 alberi ad ettaro, che ricoprono oltre 1/3 dell’intero territorio nazionale, pari a oltre 200 alberi per ogni abitante. Nel 2005 gli alberi erano complessivamente circa 12 miliardi e nel 1985 erano circa 10 miliardi.

Il territorio di Randazzo, grazie ai piani di rimboschimento pubblici ma anche ad una sensibilità ambientale più progredita, detiene oggi una copertura arborea totale di circa 9.000 Ha. che è superiore alla media nazionale. Questi boschi nostrani sono ricadenti quasi per intero all’interno delle aree protette e di questi circa 6.000 Ha. sono di proprietà pubblica e oltre 2.500 Ha. sono coltivati a fustaia. La tipologia più rilevante è composta da querceti montani per circa 1.500 Ha.- Attualmente, malgrado il forte impoverimento del passato, anche la fauna può considerarsi molto accresciuta e ben distribuita, tanto da ricostituire l’equilibrio naturale. Secondo studiosi di settore, nei secoli scorsi vivevano all’interno dei nostri boschi persino Lupi, Lontre, Caprioli, Cinghiali, Daini, Grifoni e Cervi, dai quali, in greco antico, deriva il nome dei Nebrodi, ovvero “Nebros” che significa cerbiatto. Questi animali, per vari motivi, sono oramai scomparsi dal panorama faunistico dei Nebrodi. Nel Paleolitico, tra gli altri, vivevano anche animali come l’ippopotamo e l’elefante nano, oramai tutti estinti. In modo uniforme o variabile, le presenze faunistiche e botaniche, sono oggi costituite dalle tipologie biologiche che rappresentano un pò tutta la biodiversità tipica e comune in tutto il bacino del Mediterraneo. Queste dotazioni contribuiscono a fare di questi territori delle valli dell’Etna, degli ecosistemi veramente importanti, tantè che si trovano all’interno di ben 3 Parchi naturali. Insomma, ci troviamo a gestire una ricchezza naturalistica della collettività, che va difesa costantemente dalle insidie che non di rado la minacciano.

Concludo ricordando che amare la Natura come espressione di questi territori, non deve essere semplicemente una passione emozionale o una tendenza massiva momentanea e nemmeno basta una fruizione per puro svago o appagamento dello spirito, insomma, il rapporto con la Madre Natura deve essere sincero ed in particolare proteso alla sua salvaguardia, valorizzazione e diffusione ecosostenibile… sempre!

Primavera ed escursioni in montagna

PRIMAVERA ED ESCURSIONI IN MONTAGNA: SI MA, ATTENZIONE ALLE VIPERE

Testo a cura di Enzo Crimi – già Commissario Superiore del Corpo Forestale della Regione Siciliana, saggista, divulgatore ambientale e naturalista, esperto di problemi del territorio.

Siamo in primavera e in questa stagione è maggiore il pericolo delle vipere (Vipera aspis hugyi), gli unici rettili pericolosi per l’uomo sul nostro territorio. Come tutti i rettili, essendo animali a sangue freddo, le vipere necessitano di calore e tendono a rimanere al sole per ore della giornata, in modo da innalzare la propria temperatura corporea. Tuttavia, forse non tutti sappiamo che le Vipere, avendo la capacità di assorbire il calore del substrato del terreno, nel meridione e dunque anche nel nostro territorio, riescono ad essere attive per quasi tutto l’anno, mediamente anche nelle giornate fredde e di pioggia. Nei mesi più freddi di dicembre, gennaio e febbraio, riducono di molto la loro attività vitale e si rintanano all’interno di anfratti, muretti a secco di pietra o fessurazioni del terreno, ma sempre rimanendo vigili e uscendo di tanto in tanto quando c’é il sole. La loro presenza oltre ad essere diffusamente assidua nei terreni lavici etnei, pare che sia stata notata anche alle basse quote dei Nebrodi e Madonie, in alcune zone interne della Sicilia e in tutte le regioni italiane ad esclusione della Sardegna. Non è difficile notare la presenza della vipera all’interno di bassi cespugli, pietraie o terreno nudo e non solo, infatti, nel corso della sua lunga evoluzione, si è adattata anche in altri ambienti. Di media-piccola taglia, la vipera ha una lunghezza che raggiunge circa 60-70 cm; solo in casi eccezionali può arrivare a poco più di un metro. La testa, sempre ben differenziata dal tronco, è molto piccola triangolare larga alla base e ricoperta da piccole squame irregolari, la coda molto corta e il corpo tozzo coperto di piccole scaglie con colorazione che varia dal grigio al marrone e disegno dorsale a strisce e macchiette separate o colorazione quasi uniforme (definite a macchie d’olio). Per il colore di base, l’impressione istantanea e la sua forma fisica, ma anche per la lentezza nei movimenti, spesso la vipera viene scambiata erroneamente con la Coronella austriaca che é un altro serpente molto diffuso sul nostro territorio ma non é velenoso. Ad un’attenta osservazione, questo rettile si distingue dalla vipera per la sua pupilla degli occhi rotonda, il corpo e la coda più lunghe e si può notare un pò ovunque, persino in aree urbane periferiche.

La vipera è limitata nella vista, in quanto gli occhi hanno la pupilla verticale ellittica, che si restringe in piena luce, tuttavia, riesce a percepire qualsiasi minimo rumore o vibrazione del terreno e pertanto, per sicurezza, sarebbe opportuno che chi si reca in campagna, in particolare in terreni lavici, calzi sempre scarpe a collo alto o, ancor meglio stivali che mantengano coperte e protette arti inferiori e zone del corpo a rischio di morso. Nel camminare si abbia cura di non calpestarla e si faccia più rumore possibile magari utilizzando e sbattendo un bastone, affinché, essa sentendosi disturbata si rintani. Relativamente lenta nei movimenti, la vipera è un rettile territoriale terricolo prevalentemente diurno, molto elusivo che preferisce fuggire e nascondersi quando avverte un possibile pericolo. Comunque, oltre ai piedi, bisogna porre la massima attenzione a dove si mettono anche le mani senza protezione (ad esempio durante la ricerca di funghi o verdure). La vipera non é incline allo “scontro”, non attacca e si difende solo se disturbata da vicino e alla presenza dell’uomo reagisce primariamente con la fuga. Tuttavia, pur di indole mite e poco irascibile, se calpestata, toccata o importunata si difende raccogliendo il corpo, sollevando la testa ed emettendo sibili minacciosi. In estrema ipotesi, può magari mordere e in questo caso, mantenendo sempre la calma, si ha un adeguato tempo a recarsi in una struttura medica, senza anticipare cure o interventi in proprio che potrebbero peggiorare l’evento. Preventivamente é inutile cercare nelle farmacie siero antivipera perchè non se ne trova, inoltre, il siero può essere inoculato solo in una struttura ospedaliera.

Come consigliano i medici, in particolare bisogna:

1. evitare di applicare il laccio emostatico nei pressi della ferita, perché ne rallenta o ne blocca il deflusso venoso creando una indesiderata stasi venosa, mentre non blocca il flusso linfatico, responsabile della diffusione del veleno;

2. evitare procedure di aspirazione o rimozione meccanica del veleno, quali suzioni o incisioni, in quanto non ne è dimostrata l’efficacia e si possono causare ulteriori danni;

3. non succhiare il veleno dalla ferita con la bocca, in quanto è molto probabile avere nel cavo orale piccole ferite causate spesso dallo spazzolino da denti);

4. non somministrare alcolici in quanto hanno effetto depressivo sul SNC e vasodilatatore periferico, facilitando quindi l’assorbimento del veleno;

5. rimanere tranquilli: l’agitazione provoca l’attivazione incontrollata dei meccanismi da stress che provocano una più rapida diffusione del veleno. Prima che il gonfiore lo impedisca sfilare anelli, bracciali, etc.;

6. disinfettare: è opportuno lavare la ferita con acqua semplice perchè il veleno di vipera è idrosolubile, ove possibile, lavare con acqua ossigenata o con permanganato di potassio. Sono da evitare disinfezioni con alcool o sostanze alcoliche, perché il veleno della vipera a contatto con alcool forma composti tossici. Entro pochi minuti dal morso potrebbero comparire dolore e bruciore nella sede del morso, seguito da edema duro, eritema, petecchie, ecchimosi e bolle emorragiche che tendono ad estendersi lungo l’arto colpito. Entro 12 ore possono comparire linfangite e adenopatia. Bisogna precisare che il veleno è essenziale per la vita della vipera, dato che lo utilizza per catturare le sue prede, quindi il rettile tende a non sprecarlo mordendo l’uomo, dunque, quando una persona è morsa da una vipera è di fondamentale importanza tenere conto che circa il 20% dei morsi di serpente sono morsi “secchi” in cui non vi è alcuna inoculazione di veleno. Ecco perché a volte si può notare la sede del morso, ma non c’è comparsa di sintomi sistemici.

Secondo gli studiosi, il periodo riproduttivo delle vipere è aprile-maggio ed è caratterizzato da una elevata mobilità dei maschi, che si producono talvolta in scontri ritualizzati. Si ha poi l’accoppiamento preceduto da una fase di valutazione della recettività della femmina, che il maschio verifica saggiando tutto il corpo della femmina con la lingua. La Vipera aspis è ovovivipara, le uova si schiudono all’interno del corpo materno immediatamente prima della nascita dei piccoli, che variano da 2 a 15 piccoli (mediamente una decina) che possono essere lunghi da 12 a 25 cm. I piccoli nascono normalmente in settembre e sono autosufficienti ed immediatamente provvisti di zanne e ghiandole velenifere, mentre la madre deve attendere qualche anno prima di essere nuovamente fecondata. La vipera si nutre di nidiacei di uccelli terricoli o caduti dal nido, di lucertole e di piccoli mammiferi che ne rileva di calore, mediante l’agguato, fulmineamente attacca iniettandogli il suo veleno attraverso le sue zanne retrattili che fuoriescono solo quando l’animale apre la bocca per azzannare la preda e si ritirano quando, invece, la chiude, il veleno agisce prontamente, uccidendo le prede che così vengono ingoiate. A sua volta la vipera é predata da molte specie di mammiferi quali il Cinghiale, la Martora, il Riccio e da grossi uccelli rapaci ma anche da altri rettili come il Biacco. Comunque, il suo più acerrimo nemico è però l’uomo, che la uccide, spesso senza motivo.

La vipera è il serpente italiano che più evoca atavici timori in gran parte delle persone, animale silenzioso e misterioso, custode di un incredibile potere primordiale, la vipera, come tutti i serpenti, è uno dei più vecchi e più diffusi simboli mitologici: il suo veleno è associato al potere di guarire, condannare, o donare una maggiore coscienza espansa. Il suo cambiar pelle la rende simbolo di rinnovamento e rinascita, anche di immortalità. Nella realtà la sua aura di onnipotenza e di stregoneria é molto ridimensionata, infatti, la vipera é un animale alquanto mite e, come sopraddetto, attacca l’uomo soltanto se si sente minacciata. Essa rappresenta solamente una presenza biologica molto importante ai fini dell’equilibrio ecologico dell’ambiente e, seppur indiscriminatamente uccisa a priori, essa è invece parte integrante e fondamentale nell’ecosistema. Infatti, come tutti gli animali, essa è un importante anello della catena alimentare contribuendo al mantenimento dell’equilibrio ambientale, ad esempio, cibandosi di piccoli mammiferi e roditori dannosi per l’agricoltura. Non corrisponde al vero che l’Ente Parco dell’Etna o il Corpo Forestale abbiano effettuato in passato un’immissione di vipere sul territorio del Parco.

I vigneti acquatici della Ducea NELSON

TERRITORIO DI RANDAZZO

I VIGNETI ACQUATICI DELLA DUCEA NELSON

Testo a cura di Enzo Crimi – già Commissario Superiore del Corpo Forestale della Regione Siciliana, saggista, divulgatore ambientale e naturalista, esperto di problemi del territorio.

Oggi vi parlo dei vigneti sommersi in località Gurrida di Randazzo che sono di proprietà privata e parte integrante di un più vasto e lussureggiante tavoliere a vocazione agricola ubicato su terreni caratterizzati dalla presenza in affioramento circostante di un consistente strato di suolo di natura agrario produttivo, originato dal disfacimento di ammassi detritici con presenze calcaree frammiste ad argilla. A causa della tessitura delle stratificazioni del suolo, nel periodo delle piogge, l’acqua è ristagnante e non di rado tende ad esondare ed allagare l’intero comprensorio. Queste terre lacustri posti ad ovest del lago Gurrida e altri terreni per una superficie di circa 15.000 ettari, a partire dal 1799 erano di proprietà del Re Ferdinando I° delle due Sicilie, da questi riscattate dall’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo e donate in seguito insieme agli abitanti dei luoghi all’ammiraglio inglese Horazio Nelson (Ducea Nelson) per gratitudine di aver represso “uomini scellerati e malvagi” della Repubblica partenopea che tentavano di sottrargli il regno. Dopo alterne vicende, i terreni agricoli, i boschi dei Nebrodi, l’odierno castello Nelson e un’antica abbazia benedettina, dal 4 Settembre 1981 vengono venduti dall’ultimo erede, Duca Alexander Nelson Hood al Comune di Bronte. I boschi e gran parte dei terreni posti a ovest di questo sito dei “nostri” vigneti sommersi, vengono venduti all’Azienda Foreste Demaniali, mentre i terreni agrari, dopo alterne vicende, scioperi e in considerazione della legge di Riforma Agraria, vennero in parte assegnati ai contadini della Ducea ed in parte venduti dai Nelson con agevolazioni di acquisto, ma questa è un’altra storia.

I vigneti sommersi in località Gurrida e nella Ducea Nelson coltivati con vitigni di grenache o alicante originari dei Pirenei, furono introdotti in questo territorio nel 1868 da un enologo della ducea Nelson verosimilmente per contrastare la filossera che è una malattia delle viti, attraverso la loro sommersione nell’acqua. Questi insoliti vigneti, unici nel loro genere in questo comprensorio e coltivati con il metodo dell’agricoltura biologica, generano nobili uve da vino, dalle quali si produceva un corposo vino color rubino una volta molto apprezzato dal mercato interno ed estero e identificato con il nome “Victory”, a ricordare il nome della nave ammiraglia della flotta inglese al comando di Lord Nelson. Sembra che questo vino della Ducea, sia stato presentato ufficialmente a Londra nel febbraio 1890 durante un pranzo e fu giudicato dai sommelier inglesi “…di colore rosso chiaro, buon corpo e puro, per aroma simile allo Sherry”.

Ma é possibile che un vigneto sommerso nell’acqua per mesi, possa vegetare e produrre il frutto? Ebbene si! Ragionevolmente non se ne capiscono le ragioni, eppure questo straordinario fenomeno accade soltanto nei vigneti vegetanti nei pressi del lago Gurrida, il quale, nel periodo invernale esonda e causa l’allagamento delle zone circostanti, compresi i circa 25 ettari di vigneti, un tempo fiori all’occhiello dell’agricoltura locale. Guardando questi vigneti immerse quasi completamente nelle acque, si potrebbe pensare a qualcosa di suggestivo e irreale, tuttavia, è anche un buon motivo per riflettere sulla genialità della natura che ha voluto esprimere questo patrimonio, da salvaguardare per la grande capacità di questa vite di adattarsi. Per tali caratteristiche, questo vitigno costituisce un’autentica unicità e conferma che la Madre Natura non si tira mai indietro di fronte ad una sfida, è talmente imprevedibile e capace di adattarsi a situazioni cosi estreme che spesso nessuno riesce ad immaginare di cosa essa sia capace.

Oggi purtroppo, questi vigneti hanno poca evidenza produttiva, tuttavia, i tempi in cui la produzione vinicola era in auge, sono testimoniati dalla storica e capiente cantina esistente all’interno dell’Azienda Gurrida. Si tratta di una sorta di museo del vino, dove potere ammirare i palmenti in muratura, le macchine e l’attrezzatura enologica e le grandi botti in legno di castagno dell’Etna dove veniva conservato il vino. Agli inizi del secolo scorso il vino, attraverso una locomotiva privata dell’Azienda e collegata con una piccola stazione della Ferrovia Circumetnea realizzata appositivamente nei pressi della proprietà, trasportava il vino nei porti di Catania e di Riposto, per poi proseguire verso i mercati italiani ed esteri. Sembra che nel corso della seconda guerra mondiale, questa cantina è stata il rifugio di alcuni soldati tedeschi, i quali, a colpi di pistola bucavano le grandi botti per prelevare il vino da bere e quando furono costretti a scappare incalzati dagli alleati, sversarono oltre 3 mila ettolitri di vino per terra. Le botti furono riparate ma conservano ancora gli sfregi causati dalla stupidità dei tedeschi in fuga, insomma, un museo del vino ma anche della memoria che ci riporta indietro nel tempo a ricordarci piccole e grandi storie di questo territorio e l’antica e importante produzione del vino della prestigiosa Azienda Gurrida.

In questo preciso momento storico, mi sembra doveroso riportare in questo scritto, che con grande tenacia i giovani proprietari dell’Azienda Agricola Gurrida, stanno tentando di risollevarsi e riemergere da un lungo periodo di precarietà organizzativa. Infatti, attraverso una volenterosa forma di gestione ecosostenibile con al centro la rivalutazione e la conservazione dei beni ambientali, stanno attivando alcune lodevoli iniziative di risanamento del degrado esistente, integrate con la valorizzazione delle produzioni enogastronomici del territorio, il cui prodotto di punta è il vino in quanto favorito dalle caratteristiche del terreno sopra raccontate, dunque, non solo ombre ma finalmente anche luci nascenti.